La Strada dei Castelli

Un tour attraverso i principali castelli presenti all'interno dell'Ecomuseo

1) Castello di Castiglione Mantovano

Il primo castello fu, secondo una leggenda, quello del generale romano Stilicone, eretto per difendersi dai barbari Visigoti. Sui suoi resti sarebbe poi stato innalzato, nel 1228, l’attuale castello medievale, il più regolare castello-recinto del mantovano. La sua pianta, prossima al quadrato, è circondata da cortine in origine merlate realizzate con ciottoli di fiume. Protetto da un alto terrapieno, il castello è lambito su due lati dal canale Molinella. Ai quattro angoli del recinto, a metà delle cortine dei lati est ed ovest e sul fronte sud si trovano i resti di sette basse torri scudate. Quelle d’angolo presentano una rotazione di quarantacinque gradi, così da garantire una più efficace difesa. I fronti principali della fortezza, rivolti a nord e a sud, sono protetti da due alte torri interamente realizzate in mattoni. 

Queste hanno una pianta quadrangolare, sono coperte da una volta a crociera e sono fiancheggiate da una porta d’ingresso ogivale, in origine preceduta da un rivellino a camera con ponti levatoi. Il castello, posto sulla linea di confine tra mantovano e veronese, ebbe una grande importanza strategica, confermata dai continui interventi di adeguamento in esso operati dai Gonzaga, che ne rinforzarono a più riprese la funzione difensiva e nel 1484 ne affidarono l’incarico a Luca Fancelli. Il degrado inizia un secolo dopo e nel ‘700 il fortilizio risulta in rovina. Trasformato in una corte rurale chiusa, conserva accanto all’arco d’ingresso del fronte nord la casa padronale. All’interno, sul lato sinistro rispetto all’ingresso, c’è una cortina continua di abitazioni, mentre altre sorgono sparse all’interno del recinto.

2) Torre di Canedole

La chiesa di Canedole, dedicata a San Martino vescovo, è costruita nel ‘300 con un impianto architettonico di tipo romanico. Ampliata nel corso dei secoli con l’aggiunta delle cappelle laterali del presbiterio e dell’abside, presenta esternamente parte degli originali archetti pensili con lesene lisce e alcuni frammenti d’intonaco trattato a finto mattone. La facciata della chiesa con due finestre ad arco ottocentesche è scandita da quattro lesene con capitello fuso nell’architrave; ha un frontone triangolare con al centro la statua della Vergine e ai lati due pinnacoli. L’interno è segnato da lesene alternate ad archi a tutto sesto, in parte ciechi e in parte aperti sulle cappelle laterali. La cappella della Madonna (XVII secolo) presenta attorno alla nicchia centrale i quindici misteri del rosario. Il presbiterio voltato a crociera è decorato con finti marmi e cornici. 

La calotta dell’abside è dipinta a valva di conchiglia. La cappella della Trinità, collegata all’aula ma accessibile anche tramite un portale esterno, è realizzata nel ‘700. Al centro della volta si trova l’affresco della Trinità assisa in cielo tra angeli festanti. Due sono i dipinti su tela presenti. Il primo raffigura il Cristo Risorto con i santi Bernardino, Pietro, Domenico di Guzman e una santa; il secondo la Madonna col Bambino e alcuni santi tra cui san Valentino Martire. La trecentesca torre campanaria, in origine una vera torre di difesa, è stata sopraelevata con la costruzione della cella e l’aggiunta di merli ghibellini nel XVIII secolo. E’ nota anche come “Torre di Romeo” perché la leggenda vuole che in essa si rifugiasse Romeo Montecchi, il protagonista del dramma shakespeariano, in fuga da Verona verso Mantova. 

3) Terrapieno di Bigarello

Il toponimo Bigarello deriva dalla radice longobarda “biga” indicante un gruppo di covoni; mentre Gazzo, in cui dal 1886 è stata trasferita la sede del Comune, indica un territorio boschivo e cintato. Fanno parte del Comune anche le località di Stradella e Bazza. Le notizie più antiche sul luogo datano dal 1037 quando la pieve di Bigarello è elencata tra quelle della Diocesi di Mantova. Terra di confine, nel Duecento, in seguito a un trattato di pace tra mantovani e veronesi, questi ultimi cedono ogni loro competenza sul territorio, compreso il castello, edificato proprio a difesa del confine. Costruito tra i canali Essere e Molinella, esso sorgeva in posizione rialzata, a poca distanza dal mulino, e aveva le caratteristiche di un recinto-deposito di derrate alimentari. Danneggiato più volte e poi ricostruito, venne abbattuto nell’Ottocento. Era a pianta quadrangolare con cinque torri, All’interno, l’edificio più importante era la casa del vicario dei Gonzaga, che a Bigarello avevano anche vasti latifondi di proprietà diretta. Nella cartografia settecentesca la fortezza è affiancata da un’aia trapezoidale di mattoni, lambita a nord dall’Essere e collegata a sud con uno stabile ad “uso masserizio” ancora oggi esistente in fregio al canale Molinella. Dell’antica struttura rimane solo la traccia del perimetro del terrapieno.

4) Rocca e Castello di Castel d'Ario

Il castello di Castel d'Ario è un recinto murato di 4.383 metri quadrati, con pianta pentagonale irregolare intervallata da quattro torri, di cui una d’ingresso. Una quinta torre, detta anticamente “Torre delle prigioni” e oggi “Torre della Fame” faceva parte del mastio interno, detto Rocca, e sorge isolata nell’angolo a sud-ovest. Addossati alle murature interne si trovano poi due corpi di fabbrica: il Palazzo Pretorio e l’ex macello comunale, ricavato nel 1865 nella torre rompi-tratta. Il fortilizio era in origine suddiviso in due strutture fortificate, sorte in periodi diversi ma tra loro comunicanti: la Rocca nell’angolo sud, con una propria cinta murata, terrapieno e fossato perimetrale; e l’adiacente castello-recinto, con i propri apparati difensivi e costruzioni. Rocca e castello sono realizzati in quattro momenti successivi. La prima fase (fine dell’XI secolo-metà del XII) riguarda la torre della Fame. A questa segue (metà del XII secolo-inizio del XIII) la costruzione delle mura basse attorno alla Rocca. Nel corso del Duecento si definisce l’attuale perimetro murato del castello-recinto con le quattro torri.

Nella quarta fase, portata a compimento entro il 1377, si potenziano e ampliano le strutture esistenti. L’interno della Torre della Fame è oggi suddiviso in due ambienti sovrapposti di cui il primo voltato a botte e il secondo a crociera. Dalla copertura della torre lo spuntone più alto, concluso da un merlo angolare, documenta l’altezza della costruzione sino alla fine del Settecento. Allora, a copertura della sommità c’era un tetto a quattro falde sovrastato da una torretta campanaria più piccola, mentre addossato alla torre, dove è rimasto sino a fine ‘700, era un corpo di fabbrica accessorio ad “L” denominato “Torresino” di cui rimangono ben visibili le immorsature dei solai e le arcate della volta. L’interno della torre era in origine suddiviso in sei piani con diverse funzioni. Il primo livello serviva da prigione, il secondo da cantina, il terzo e il quarto erano destinati alla residenza, il quinto, il sesto e la copertura erano a servizio delle guardie. Nel Duecento, dopo il completamento delle mura della Rocca, gli interventi si concentrano sulla cinta del castello, realizzando l’attuale impianto poligonale con le quattro torri fino all’altezza di circa 10 metri. 

Esternamente sono ancora visibili le merlature guelfe, poi inglobate nel sopralzo del Trecento. La torre d’ingresso era protetta da una saracinesca e da un portone a due ante e collegata ad un rivellino a camera, di cui rimangono alcuni tratti di parete e sul cui fronte si aprivano due passaggi, uno carraio e uno pedonale, entrambi muniti di ponti levatoi. La torre d’angolo che completa il fronte del castello e originariamente inglobata nel Palazzo Pretorio, è a pianta quadrata mentre le altre due sono scudate: con pianta rettangolare quella rompi-tratta e pentagonale quella d’angolo. Il castello duecentesco subisce entro il 1377 una significativa trasformazione: si ringrossano e sopraelevano le murature e si realizza un nuovo apparato sommitale con una merlatura oggi scomparsa e un nuovo cammino di ronda. I nuovi apprestamenti offensivi sono quindi scaglionati su due livelli: quello sommitale e uno intermedio costituito da una serie continua di arciere servite mediante apposito impalcato. Addossati alle mura interne del recinto del castello stanno vari edifici, tra cui magazzini oggi scomparsi e l’imponente Palazzo Pretorio.

Il Palazzo Pretorio è sempre stato la costruzione più imponente del castello-recinto, sorta come residenza del funzionario rappresentante del signore del luogo: il vescovo di Trento dal 1082 al 1796, che però concesse il feudo in sub-investitura prima ai Bonacolsi (1275-1328) e poi ai Gonzaga (1328-1708). Il ruolo di vicario comportava la responsabilità dell’intero territorio, con continui controlli, registrando le produzioni, riscuotendo le tasse, applicando la giustizia per casi di lieve entità: da qui il nome di pretorio dato al palazzo dove il vicario risiedeva. La costruzione è addossata alla cinta muraria frontale alla destra dell’ingresso nel castello, inizia all’angolo interno della torre passante d’accesso e si concludeva all’origine contro il tratto di mura opposto, a nord-est. Il suo accorciamento, che corrisponde all’attuale dimensione del palazzo, è avvenuto nel corso del Settecento, dopo un lungo periodo di declino della fortezza, successivo alla terribile peste del 1630. La riduzione si vede ad occhio nudo, sia all’esterno del Palazzo Pretorio dove sporgono consistenti a continuare i muri attuali, sia addossati alle mura.

Dentro, al piano nobile affrescato con gli stemmi scaligeri, si individua subito lo stemma tagliato a metà dalla parete eretta proprio per accorciare il palazzo. Affreschi e salone sono testimonianza di due momenti storici importanti: la presenza scaligera e il dominio francese. Gli affreschi sono infatti opera di Cansignorio della Scala, signore di Verona dal 1359 al 1375 e cioè nel periodo in cui il castello, allora dei Gonzaga, viene dato in pegno agli Scaligeri per un ventennio (1357-1377) a fronte di un prestito molto consistente in fiorini d’oro. Prestito restituito interamente nei tempi concordati ma intanto il castello era stato completato e il piano nobile del Palazzo Pretorio affrescato con stemmi e firma (la C incoronata) del signore veronese. Il salone è stato invece manomesso ad inizio Ottocento, quando viene ripartito in ben nove locali e parte degli affreschi viene sacrificata con l’apertura di varie finestre per ricavarvi la Gendarmeria e le prigioni, secondo gli ordini del governo napoleonico. Coperti nel tempo da numerosi strati di intonaco, gli affreschi sono stati scoperti solo negli anni ’80 del Novecento quando il Comune di Castel d'Ario, proprietario dell’immobile, decise il recupero del Palazzo Pretorio e durante i lavori si videro affiorare le pitture: quasi integre nelle zone più protette, molto danneggiate in quelle rimaste esposte alle intemperie.

La Sovrintendenza ne ha ordinato il restauro, effettuato con tempi piuttosto lunghi. La ristrutturazione complessiva del Palazzo Pretorio ha rispettato solo i volumi dell’edificio, ma annullato tutte le ripartizioni interne e cambiato radicalmente gli utilizzi dei tre piani della struttura. Delle tante altre costruzioni erette nel tempo all’interno del castello-recinto, tutte addossate alle mura, non resta più nulla: solo i fori delle buche pontaie a indicare l’ubicazione degli originari magazzini e ricoveri (per persone e animali), poi trasformati in case nel corso del Cinquecento; e le impronte di tetto e solai di una palazzina sulle mura ad ovest. Sono spia di un insediamento importante dopo che il castello, esaurita la sua funzione militare di difesa del territorio, era diventato un quartiere popoloso e sicuro, dove continuava a risiedere il vicario del principe, era stata aperta la prima banca tenuta da ebrei (1514), viveva il massaro della comunità, avevano case e magazzini i notabili del paese. La bassa costruzione che si vede ora, adiacente alla torre rompi-tratta, è la ristrutturazione dell’ex macello comunale, realizzato nel 1865 e funzionante fino al 1929.

Il nome attuale della torre isolata all’interno della cinta muraria del castello è dovuto al macabro rinvenimento di sette scheletri nell’ambito dei lavori di sgombero dei detriti alla base della torre per ricavarvi la ghiacciaia comunale, nel 1851. L’allora parroco don Francesco Masè, studioso eclettico ed appassionato di storia e di scavi, che realizzò la ghiacciaia come opera di beneficenza, collegò quei resti alle notizie storiche relative alla fine orribile che in quella torre fecero, nel 1321, Francesco Pico della Mirandola con due figli, lì imprigionati e lasciati morire da Passerino Bonacolsi e ,nel 1328, due figli e due nipoti di Passerino, ucciso da Luigi Gonzaga nella rivolta che portò quest’ultimo a diventare signore di Mantova. L’attribuzione degli scheletri ai sette storici sventurati si deve, oltre che a don Masè, anche al conte Carlo D’Arco, storico insigne e allora impegnato ad allestire il Museo Civico di Mantova, aperto nel 1852. L’evento è ricordato nella lapide posta sopra l’ingresso del castello nel 1883, con testo dell’allora sindaco Luigi Boldrini. Il nuovo nome di Torre della Fame, di dantesca memoria, sostituisce quello precedente di Torre delle Prigioni, anche se ormai da tre secoli la torre non aveva più quella funzione. E nemmeno quella originaria.

Sorta infatti dopo il Mille come vedetta per il controllo del territorio, la torre aveva costituito in seguito la parte centrale e più importante di una fortificazione detta Rocca, praticamente inespugnabile, con cinta muraria, terrapieno e fossa all’esterno e poi terrapieno interno e torresino angolare addossato, un unico ingresso pedonale con ponte levatoio. Un rialzo della struttura nel corso del Trecento aveva creato di una specola ad uso delle guardie e una sovrastante torretta con campana. La zona sotto il volto della torre era diventata così il nuovo locale delle prigioni, dopo che quello sotterraneo era ormai la tomba dei sette sventurati lasciati morire di fame e di sete. Nel Quattrocento e fino a circa metà Cinquecento due piani della torre sono abitati dal castellano, funzionario gonzaghesco che lì vive con la famiglia e che è responsabile anche della difesa dell’attiguo borgo della Bastiglia e dei prigionieri mandati dai Gonzaga. 

Tra questi, arriva nel 1487 Evangelista Gonzaga, figlio naturale di Carlo e prode condottiero, accusato di aver ordito una congiura contro Francesco, il legittimo successore (e futuro marito di Isabella d’Este). Evangelista è trasferito nella prigione della Rocca di Castel d'Ario perché è considerata più sicura di altre. Vi rimane cinque anni, prima di essere riconosciuto innocente e liberato, ma così sfinito da morire poco dopo. Ad inizio Cinquecento arriva nella Rocca, per essere trattata come prigioniera, Taddea Forlani, l’infedele e per questo ripudiata moglie del “Cardinalino”, costretta a vivere per due anni e mezzo in una stanza del castellano perché le prigioni sono inagibili. In effetti, fino a metà Cinquecento i prigionieri sono pochissimi; poi verrà tolto il castellano e i locali vengono utilizzati come magazzini. Dopo il 1630 la Rocca subisce la sorte di abbandono di tutto il resto del castello. A metà Settecento viene privata del torresino, già in parte franato, della parte sommitale e della cinta muraria interna, assumendo così l’aspetto attuale di torre isolata.

5) Castello di Villimpenta

A difesa di un confine di terra e d’acque. Il Castello Scaligero, poi Gonzaghesco, di Villimpenta è uno dei più interessanti casi di castelli-recinti del Mantovano. Ricordato come area fortificata già dal 1047, faceva parte di un sistema difensivo che andava dal Mincio al Po. In un privilegio di Enrico III imperatore di Germania si fa cenno ad una “curtem Villae Impictae”, da cui deriva l’attuale nome del paese, Villimpenta. Situato in corrispondenza di una naturale altura circondata dai rami del fiume Tione e già abitata in epoca romana, il Castello nacque come monastero dedicato a Sant’Andrea, dipendente da quello di San Zeno di Verona, e cinto da un una palizzata. Gli Scaligeri divennero successivamente ‘protettori’ del monastero in Villimpenta e ad essi si deve una importante opera di ristrutturazione, anzi più probabilmente di ricostruzione, nelle attuali forme. Dopo di loro, si aprì un non facile periodo di trattative fra le potenze coinvolte nella gestione di questo importante territorio di confine. Infine Francesco Gonzaga lo acquistò dai Visconti nel 1391. Nel corso del XV secolo, in particolare durante la reggenza di Ludovico II Gonzaga, i castelli-recinti situati lungo i confini divennero fulcri dell’attività agricola.

Molte ed importanti modifiche risalgono sicuramente al periodo gonzaghesco, che durò con continuità fino all’inizio del XVIII secolo. Il castello-recinto fu condizionato nella sua morfologia sia dal fiume Tione che da preesistenti fondazioni. Racchiude una superficie di circa 600 mq. La pianta è irregolarmente esagonale, ma la presenza di due angoli molto ottusi fa sembrare il poligono della pianta un quadrilatero. Ad ogni angolo c’era una torre, più una lungo i lati maggiori; erano tutte quadrilatere, anche se gli angoli non erano sempre retti, per potersi adattare al tracciato; quella di sud-ovest è pentagonale. La torre posta all’angolo nord-ovest, o mastio, è la più alta ed ha i quattro lati in muratura. La fortificazione è intervallata da torri rompi-tratta e da torri angolari, tutte scudate. Queste erano connesse da camminamento di ronda, sostenuto da strutture in cotto aggettante a mensola. Il lato lungo della cortina occidentale è quasi intatto, e raccorda il mastio con altre due torri e la porta. La cortina orientale si conserva solo in parte a causa di gravi fenomeni statici che hanno dato luogo a crolli durante i secoli XVIII e XIX. 

Le raffigurazioni e le mappe storiche mostrano la presenza del Castello lungo il corso del fiume Tione e in vicinanza del borgo. Elementi ricorrenti sono il mastio, la torre d’ingresso e le torri secondarie lungo le mura di cinta. Nel 1688 le torri sono ancora rappresentate nella loro integrità. Attualmente se ne conservano intatte solo due oltre al mastio, mentre di altre due sopravvivono i basamenti. I materiali utilizzati per l’edificazione del complesso sono il laterizio con inserti di pietra locale, in lastre e blocchi. Gli elementi lapidei rappresentano particolari di finitura e d’abbellimento per un’architettura di carattere militare. Il Castello di Villimpenta appartiene infatti all’architettura fortificata veneta: numerose sono le analogie con Castelvecchio a Verona e con i castelli di Lazise e di Sirmione. Si notano tuttavia alcune differenze, in particolare nella struttura muraria del mastio e delle torri. Mentre i caratteri veneti sono immediatamente identificabili, meno immediato o certo è il riconoscimento formale di una committenza scaligera.

Ingresso. L’ingresso è costituito da ciò che resta di un rivellino a camera, con porta carraia, pusterla e ponte levatoio sul fiume, che fungeva da fossato; a pochi metri di distanza si notano testimonianze di un’altra chiusura o saracinesca. Il ponte levatoio era aperto raramente e, per permettere il passaggio di una persona o di un cavallo per volta, si utilizzava la pusterla, di più semplice manovra. Sul fianco di ponente del rivellino si trova una seconda porta che si pensa avesse lo stesso scopo della precedente.

Il mastio. L’imponente struttura del mastio, adiacente all’ingresso, presenta una pianta pseudo-quadrata di circa 9 metri di lato, si eleva per una altezza superiore ai 30 metri ed ha murature prive di scarpa dello spessore di 2,30 metri alla base. È dotato di un apparato a sporgere realizzato con beccatelli interamente in mattoni, differenziandosi in ciò dalla tradizione scaligera che utilizza mensole in pietra sovrapposte. I beccatelli sono sei per lato, quelli angolari più massicci dei rimanenti, decorati da cinque archetti e due oculi ciechi, il tutto sormontato da grossi merli, quattro per lato, quasi certamente bucati da feritoie. Al mastio si accede dal basso attraverso una piccola porta situata sul lato sud. 

Un altro accesso, dotato in origine di ponte levatoio di modeste dimensioni, all’altezza del cammino di ronda, consentiva o impediva il passaggio dalle cortine al mastio. La copertura del mastio è costituita da una volta a crociera in laterizio in cui è presente un’apertura che permetteva di salire in cima. Gli originari solai e collegamenti verticali, perduti entro il secolo XIX, erano lignei. Si conserva invece all’ultimo livello della torre la sala del capitano del corpo di guardia, con il camino ed ulteriori elementi caratteristici della vita castrense. Non è semplice determinare quale fosse esattamente la forma originale dei merloni del mastio e dei merli delle altre due torri. Al contrario, i merli delle cortine sono chiaramente ghibellini, trapassati da una feritoia in maniera alternata.

Il recinto. Del recinto murario è sopravvissuto il lato occidentale con due torri, una angolare e l’altra intermedia, in grave stato di abbandono. Le torri, una rettangolare e l’altra pentagonale con un vertice rivolto verso il paese, sono aperte verso l’interno del recinto e al loro interno, erano suddivise da solai in legno, di cui oggi resta traccia nelle bucature del muro. Entrambe sono divise, secondo l’altezza, da due volte a botte in mattoni. Lungo le creste delle cortine superstiti si osserva ciò che rimane del camminamento di ronda che si interrompe a circa 4 metri dal mastio. Nel tratto che collega il mastio alla torre intermedia, esso è realizzato parte nello spessore delle mura e parte su mattoni in aggetto che venivano ricoperti con lastre in marmo Rosso Verona, mentre il camminamento nel tratto tra la torre intermedia e la torre angolare non risulta essere stato lastricato in pietra se non per pochi metri a ridosso della torre.

È inoltre singolare che le quote di partenza e d’arrivo di questo percorso aereo (dalla torre intermedia all’angolare) siano diverse: infatti le porte di attraversamento delle torri si trovano ad altezze differenti, il che comporta la necessità di scale lungo il tragitto, di cui però non si notano resti. La parte orientale della fortificazione è caratterizzata da due torri e da una cortina muraria assai danneggiate, probabilmente a causa delle fondazioni che, in questo lato, posano su un letto di argilla di riporto. Il castello fu edificato infatti in area bonificata e riempita di argilla e materiali di riporto. Tuttavia pare che sino al XVIII secolo le mura e le torri fossero ancora intatte. 

Dimora in Castello. A sinistra dell’ingresso si trova un’abitazione che serviva al castellano, poi parzialmente ricostruita con materiali provenienti dalle cortine murarie del castello nel secolo XVIII ed impiegata quale osteria. Nel secolo XX ospitò dapprima la sede del Comune, poi le scuole comunali ed infine divenne una residenza privata.
 

Cappella in Castello. Durante l’esecuzione dei recenti restauri della abitazione del castellano (2012-2013) sono stati rinvenuti due cicli sovrapposti di decorazioni pittoriche murali di eccezionale rilevanza storica e documentaria. Un primo ciclo di decorazione, rappresentante una Madonna col Bambino fra i santi Gabriele e Raffaele, è databile agli ultimi anni del secolo XIII e riferibile agli artisti veneti attivi nel territorio e di chiara influenza bizantina. Un secondo ciclo di decorazioni riferibile ai primi decenni del secolo XV, sovrapposte al primo, rappresenta un soggetto analogo ma stavolta compreso fra due santi di devozione popolare: sant’Antonio e santa Caterina.     

Il Castello oggi. Il Comune di Villimpenta è l’attuale proprietario del Castello, che ha acquistato dalla famiglia di Nando Magri nell’anno 2003. Il complesso fortificato è stato recentemente oggetto di tre importanti interventi conservativi, di restauro architettonico e di riqualificazione funzionale. Il primo intervento (2004-2006) ha interessato il mastio e l’ingresso, costituito dai resti di un rivellino a camera con porta carraia, pusterla e ponte levatoio. Nel corpo cavo della torre, ormai privo di impalcati, è stata inserita una scala sospesa con struttura metallica e gradini in legno che consente di raggiungere la sommità e si sono ricreati due solai, con una moderna struttura in ferro e cristallo. Il secondo intervento (2006-2007) ha riguardato principalmente la pulizia ed il restauro dei paramenti murari, nonché il consolidamento statico delle strutture a volta presenti nelle torri, avvenuto mediante l’inserimento di architravi in ferro. Il terzo lotto di interventi, conclusosi nella primavera 2012, ha portato al recupero e riutilizzo della residenza che appoggia sul lato Nord e di ciò che resta ad Est del recinto murario. La dimora è ora destinata ad uso pubblico, come centro di documentazione della realtà storica e culturale del Comune di Villimpenta e del suo circondario, sede di accoglienza per i gruppi di visitatori e spazio museale ed espositivo.

Accessibilità, visite ed attività. Il complesso architettonico si presenta oggi nell'insieme in buone condizioni di conservazione e totalmente accessibile ai disabili nei suoi percorsi interni ed esterni al recinto fortificato. La dimora interna al Castello, nella quale sono insediati i servizi, le strutture di accoglienza per gli operatori, per i visitatori e per le attività didattiche, ospita gli spazi che integrano il percorso museale e le esposizioni temporanee. Si sviluppano su due livelli e sono totalmente accessibili ad operatori ed utenti diversamente abili. A seguito della definitiva accessibilità, nella primavera 2013 il Castello ha ripreso le regolari aperture al pubblico che si svolgono stagionalmente (1 maggio-30 settembre) durante il fine settimana, ma anche su richiesta per attività culturali e didattiche durante la restante parte dell’anno. 

Si svolgono inoltre laboratori didattici tematici, particolarmente rivolti alla “sensibilizzazione al patrimonio” dei più piccoli. Tali aperture, così come le attività e le manifestazioni si devono all’impegno dei volontari dell’Associazione Amici di Palazzo Te e dei Musei Mantovani – Delegazione dei Castelli e territori di confine in collaborazione con l’Amministrazione comunale di Villimpenta. Tale delegazione, principalmente costituita da giovani operatori culturali specificamente formati e volontari, si è formata con lo specifico indirizzo di valorizzare e rendere fruibili attraverso il volontariato queste particolari strutture. patrimonio del territorio. (Contatti: Comune di Villimpenta: 0376.667508 | Associazione Amici di Palazzo Te e dei Musei Mantovani – Delegazione dei Castelli e territori di confine | 334.9337720).

6) Terrapieno di Roncoferraro

Il terrapieno del castello, la cui precisa origine resta incerta, è una presenza emblematica e inconsueta nel contesto urbanistico del paese e del territorio. La fortezza nel XVI secolo, quando la sua funzione difensiva doveva essere ormai superata, è sede di un funzionario gonzaghesco dedito all’amministrazione della giustizia locale. Il fortilizio viene demolito all’inizio del ‘700 assieme agli altri di Governolo e Poletto per fornire materiale di riuso da impiegare nella fortificazione di Mantova. Il castello presentava una cortina muraria quadrangolare munita di torri angolari, così come sembrano confermare le rare testimonianze cartografiche storiche conosciute. Anche dopo la demolizione, nel sito continua a figurare la “casa del giurisdicente”, con ancora il doppio fossato a circondare il dosso (l’interno di forma rettangolare e l’esterno circolare), traccia del quale ancora si ravvisa nelle planimetrie catastali del 1929. Ulteriori sviluppi edilizi ci sono testimoniati dal Catasto Lombardo Veneto (1856) che, con la costruzione della Villa dei conti Pellegrini (l’attuale sede municipale), restituisce la configurazione planimetrica giunta sostanzialmente fino a noi. Di particolare interesse, oltre alla grande scalinata di collegamento con la sottostante via Roma, è la palazzina di stile neoclassico, costruita prima del 1830, quale elemento accessorio della villa Pallavicini. Le sue ampie sottostrutture, comprendono anche alcune strutture murarie più antiche: due vani voltati sono riferibili al XVI secolo.

7) Torre di Casale

La torre campanaria della parrocchiale di Casale si sviluppa su cinque livelli, conclusi da una cella campanaria caratterizzata da aperture a bifora con arco a tutto sesto e doppia ghiera. La struttura massiccia e le finestre a feritoia presenti lungo la canna indicano che la torre di Casale non nacque come campanile, ma come presidio difensivo, per poi diventare presto un magazzino di viveri. La torre è costruita in mattoni con muratura a sacco (due fasce murarie con lo spazio interno riempito di frammenti di laterizio, ciottoli e calce), come gli edifici dell’Oltrepò mantovano dell’epoca di Matilde di Canossa e la chiesa di Barbassolo. 

Anche i pochi elementi decorativi (cornici a denti di sega a ripartire la superficie), l’alternanza tra laterizi sottili e spessi, la presenza di un tratto di mattoni disposti a spina di pesce al penultimo livello oltre all’inserzione sempre in quella fascia di una bocca d’anfora (come a Barbassolo), sono tratti dello stile romanico. In assenza di documenti, la rustica semplicità, analoga a quella delle torri cittadine mantovane, fa pensare che il manufatto risalga alla seconda metà dell’XI secolo, e costituisca pertanto la testimonianza più antica dello stile romanico rimasta nel territorio di Roncoferraro. L’analisi delle superfici murarie evidenzia come la parte terminale della costruzione, corrispondente alla cella campanaria, sia frutto di un’aggiunta successiva del XV secolo, connessa al riutilizzo del manufatto come campanile.

8) Torre di Governolo

La torre “dell’orologio” di Governolo viene comunemente fatta risalire a Matilde di Canossa, ed è conosciuta anche come “torre di Galliano”. In effetti la fortificazione di Governolo, testimoniata sin dall’XI secolo, fu poi sede di concitati episodi della nota lotta per le investiture tra il papa, di cui la contessa Matilde era grande sostenitrice, e l’imperatore Enrico IV. Lo stato di conservazione non buono e i vari rimaneggiamenti (i finestroni, l’orologio e l’intonacatura) non aiutano la lettura, così come l’assenza di decorazioni. A differenza degli edifici romanici di epoca matildica della zona (Barbassolo e Casale), questa torre però non presenta fasce di mattoni sottili alternati a file di laterizi più spessi, ma mattoni di dimensioni omogenee spaziati da calce: tecnica che rimanda alla parte finale del Medioevo. I documenti del XIV e XV secolo infatti informano di continue manutenzioni e rinnovamenti del castello da parte di Ludovico e Francesco I Gonzaga, impegnati a mantenere sempre efficienti le strutture di difesa. Una mappa ci mostra il castello, nella zona ora occupata dalla conca di navigazione, come un’area quadrangolare con torri e fossati, con all’interno una chiesa e abitazioni (ricostruzione al Museo del Fiume). Il castello fu abbattuto dagli Austriaci nel ‘700, con l’eccezione della torre, unica testimonianza di architettura militare difensiva dell’epoca rimasta in zona.

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