La Strada del Romanico

Percorso culturale che segue le orme del periodo romanico

1) Torre della Fame di Castel d'Ario

Il castello di Castel d'Ario è un recinto murato di 4.383 metri quadrati, con pianta pentagonale irregolare intervallata da quattro torri, di cui una d’ingresso. Una quinta torre, detta anticamente “Torre delle prigioni” e oggi “Torre della Fame” faceva parte del mastio interno, detto Rocca, e sorge isolata nell’angolo a sud-ovest. Addossati alle murature interne si trovano poi due corpi di fabbrica: il Palazzo Pretorio e l’ex macello comunale, ricavato nel 1865 nella torre rompi-tratta. Il fortilizio era in origine suddiviso in due strutture fortificate, sorte in periodi diversi ma tra loro comunicanti: la Rocca nell’angolo sud, con una propria cinta murata, terrapieno e fossato perimetrale; e l’adiacente castello-recinto, con i propri apparati difensivi e costruzioni. Rocca e castello sono realizzati in quattro momenti successivi. La prima fase (fine dell’XI secolo-metà del XII) riguarda la torre della Fame. A questa segue (metà del XII secolo-inizio del XIII) la costruzione delle mura basse attorno alla Rocca. 

Nel corso del Duecento si definisce l’attuale perimetro murato del castello-recinto con le quattro torri. Nella quarta fase, portata a compimento entro il 1377, si potenziano e ampliano le strutture esistenti. L’interno della Torre della Fame è oggi suddiviso in due ambienti sovrapposti di cui il primo voltato a botte e il secondo a crociera. Dalla copertura della torre lo spuntone più alto, concluso da un merlo angolare, documenta l’altezza della costruzione sino alla fine del Settecento. Allora, a copertura della sommità c’era un tetto a quattro falde sovrastato da una torretta campanaria più piccola, mentre addossato alla torre, dove è rimasto sino a fine ‘700, era un corpo di fabbrica accessorio ad “L” denominato “Torresino” di cui rimangono ben visibili le immorsature dei solai e le arcate della volta. L’interno della torre era in origine suddiviso in sei piani con diverse funzioni. Il primo livello serviva da prigione, il secondo da cantina, il terzo e il quarto erano destinati alla residenza, il quinto, il sesto e la copertura erano a servizio delle guardie.

Il nome attuale della torre isolata all’interno della cinta muraria del castello è dovuto al macabro rinvenimento di sette scheletri nell’ambito dei lavori di sgombero dei detriti alla base della torre per ricavarvi la ghiacciaia comunale, nel 1851. L’allora parroco don Francesco Masè, studioso eclettico ed appassionato di storia e di scavi, che realizzò la ghiacciaia come opera di beneficenza, collegò quei resti alle notizie storiche relative alla fine orribile che in quella torre fecero, nel 1321, Francesco Pico della Mirandola con due figli, lì imprigionati e lasciati morire da Passerino Bonacolsi e ,nel 1328, due figli e due nipoti di Passerino, ucciso da Luigi Gonzaga nella rivolta che portò quest’ultimo a diventare signore di Mantova. L’attribuzione degli scheletri ai sette storici sventurati si deve, oltre che a don Masè, anche al conte Carlo D’Arco, storico insigne e allora impegnato ad allestire il Museo Civico di Mantova, aperto nel 1852. 

L’evento è ricordato nella lapide posta sopra l’ingresso del castello nel 1883, con testo dell’allora sindaco Luigi Boldrini. Il nuovo nome di Torre della Fame, di dantesca memoria, sostituisce quello precedente di Torre delle Prigioni, anche se ormai da tre secoli la torre non aveva più quella funzione. E nemmeno quella originaria. Sorta infatti dopo il Mille come vedetta per il controllo del territorio, la torre aveva costituito in seguito la parte centrale e più importante di una fortificazione detta Rocca, praticamente inespugnabile, con cinta muraria, terrapieno e fossa all’esterno e poi terrapieno interno e torresino angolare addossato, un unico ingresso pedonale con ponte levatoio. Un rialzo della struttura nel corso del Trecento aveva creato di una specola ad uso delle guardie e una sovrastante torretta con campana. La zona sotto il volto della torre era diventata così il nuovo locale delle prigioni, dopo che quello sotterraneo era ormai la tomba dei sette sventurati lasciati morire di fame e di sete. Nel Quattrocento e fino a circa metà Cinquecento due piani della torre sono abitati dal castellano, funzionario gonzaghesco che lì vive con la famiglia e che è responsabile anche della difesa dell’attiguo borgo della Bastiglia e dei prigionieri mandati dai Gonzaga.

Tra questi, arriva nel 1487 Evangelista Gonzaga, figlio naturale di Carlo e prode condottiero, accusato di aver ordito una congiura contro Francesco, il legittimo successore (e futuro marito di Isabella d’Este). Evangelista è trasferito nella prigione della Rocca di Castel d'Ario perché è considerata più sicura di altre. Vi rimane cinque anni, prima di essere riconosciuto innocente e liberato, ma così sfinito da morire poco dopo. Ad inizio Cinquecento arriva nella Rocca, per essere trattata come prigioniera, Taddea Forlani, l’infedele e per questo ripudiata moglie del “Cardinalino”, costretta a vivere per due anni e mezzo in una stanza del castellano perché le prigioni sono inagibili. In effetti, fino a metà Cinquecento i prigionieri sono pochissimi; poi verrà tolto il castellano e i locali vengono utilizzati come magazzini. Dopo il 1630 la Rocca subisce la sorte di abbandono di tutto il resto del castello. A metà Settecento viene privata del torresino, già in parte franato, della parte sommitale e della cinta muraria interna, assumendo così l’aspetto attuale di torre isolata.

2) Pieve di Barbassolo

La “Pieve di Barbassolo”, di recente elevata al rango di Santuario, è dedicata ai Santi medici Cosma e Damiano, martirizzati nel IV secolo. In realtà la chiesa non è individuata nei documenti antichi come pieve, ma non solo perché le prime attestazioni scritte che la riguardano sono molto tarde rispetto alla sua erezione. Le pievi erano edifici di rilievo, come le attuali parrocchie, sia a livello religioso che sul piano amministrativo, e solitamente erano strutturate con piante a tre navate o comunque complesse, mentre qui siamo in presenza di una costruzione ad aula unica di piccole dimensioni. Quella di Barbassolo era quindi in origine una semplice cappella di qualche altra pieve, forse di quella di Barbasso, vista la derivazione del toponimo, o di Roncoferraro, data la vicinanza e la crescente importanza della località, che troviamo documentata per la prima volta nel 1088 e nel 1101 possiede una chiesa già dotata di un arciprete. La chiesa di Barbassolo, come di consuetudine per l’epoca, è orientata: l’abside, che è il settore principale, è rivolta ad est per ricevere la luce nascente del giorno, in cui si vedeva un simbolo di Cristo. 

L’edificio, caratterizzato da muratura a sacco, con lo spazio interno tra le due cortine riempito da calce e anfore infrante, è costruito in mattoni, perché l’argilla era il materiale più facilmente ottenibile nella zona e quindi più a buon mercato; per lo stesso motivo e probabilmente anche con una valenza simbolica sono stati poi riutilizzati anche manufatti romani. La muratura è costituita da fasce alternate di laterizi alti e bassi, procedura costruttiva che si riscontra sul territorio anche nella torre romanica di Casale, oltre che nelle chiese “matildiche” dell’Oltrepò. I lavori di ripristino (1959-1965) ad opera dell’allora parroco don Pelati hanno permesso il recupero di un edificio romanico che prima era nascosto da sovrastrutture posteriori, e pertanto non veniva menzionato tra le costruzioni risalenti a quell’epoca. Le modifiche sono state condotte in vari casi con metodi non più condivisibili, come si nota soprattutto in facciata, dove si crearono arbitrariamente una bifora e il portale. 

La rimozione degli intonaci permise però di riscoprire le due lesene angolari, una sezione sporgente al centro, una finestra cruciforme e le bocche di due anfore conficcate nella muratura con funzione decorativa. Si tratta di elementi di grande importanza, perché nel territorio mantovano le facciate sono di gran lunga le parti che hanno subito maggiori manomissioni col passare dei secoli, in quanto di maggiore rilievo. Nel corso del ripristino, il fianco sinistro venne liberato dalle costruzioni rustiche che erano state addossate in epoche successive, e vi furono inseriti marmi, tegole e mattoni romani recuperati nella zona; su entrambi i lati venne poi abbattuta una cappella che era stata innestata in epoca tardorinascimentale, con la conseguente ricostruzione della muratura (in mattoni più chiari), della monofora e degli elementi decorativi. L’abside rettangolare è una struttura aggiunta nel ‘500, insieme con lo zoccolo in ciottoli e mattoni che sorregge l’intero edificio; le fondamenta del tracciato absidale originale, semicircolare, sono state individuate durante il ripristino.

La presenza di caratteristiche comuni alle chiese “matildiche” non deve però necessariamente rimandare alla contessa Matilde, anche perché il suo rapporto con tutti gli edifici che tradizionalmente le vengono attribuiti non è documentato: visto che l’unica carta antica che collega Matilde ad una di queste costruzioni (quella di Gonzaga) nemmeno in quel caso è riferibile con certezza ad una fondazione di un edificio, sarebbe quindi meglio parlare di “chiese dell’epoca matildica”. Inoltre a Barbassolo troviamo elementi decorativi comuni e standardizzati, tipici del romanico “lombardo”, come la successione di archetti pensili terminanti con peducci, le lesene che spartiscono in tre settori la superficie dei fianchi e infine le monofore strombate a stipite obliquo. Queste caratteristiche stilistiche inducono a collocare la chiesa agli inizi del XII secolo. Più tarda (XV secolo) è la fascia decorativa a coronamento delle fiancate, con una cornice a denti di sega spaziati e sporgenti che sovrasta un fregio a mattoni disposti parallelamente in verticale, a testimonianza di un costante rimaneggiamento nel tempo degli edifici ecclesiastici, soprattutto in base alle necessità pratiche e di utilizzo. 

Anche all’interno è ben visibile il paramento murario a fasce alternate di mattoni sottili e spessi, sia sui lati che sulla controfacciata. Va però detto che in origine le pareti non erano state concepite per presentarsi spoglie, perché in genere negli edifici romanici la struttura architettonica era arricchita e completata da colorati affreschi, come vediamo ad esempio nella Rotonda di San Lorenzo a Mantova o ad Acquanegra. La luminosità era di certo soffusa, vista l’esiguità delle finestre, ma sicuramente ravvivata dalle tinte delle decorazioni e dalle luci tremolanti delle candele. Il pavimento è moderno, come la copertura. Nel fianco sinistro è murata una lastra in terracotta scolpita proveniente da un edificio nelle vicinanze del paese. Questo tabernacolo a muro è un caso unico nella zona, con la sua decorazione sovrabbondante, minuta e preziosa, che rimanda ad un gusto nordico e al “gotico fiorito” veneziano del XV secolo. I motivi floreali e vegetali di cui sono costituiti persino gli elementi architettonici rappresentano un evidente rimando simbolico al giardino del Paradiso, lussureggiante e sempreverde.

L’altare è sostenuto da un parapetto di pozzo in pietra bianca, un prodotto della cultura tardogotica (XV secolo) proveniente una corte dei dintorni (corte Rottadola, presso Pontemerlano). Quando iniziarono i lavori di ripristino della chiesa, essa si presentava con una veste decorativa settecentesca, ed era dotata di tre altari, uno principale nell’abside e altri due all’interno di cappelle laterali aperte ad arco verso la navata della chiesa. La scelta operata all’epoca da don Pelati fu quella di ripristinare l’edificio nella sua ipotetica architettura originaria. Vennero così abbattute le cappelle e ricreate le murature rettilinee delle fiancate, si smantellarono tutti gli altari, dei quali si è persa completamente memoria, e fu tolto l’intonaco ai muri, sia a quelli più recenti che a quelli della costruzione primitiva, nel tentativo di restituire all’edificio un “sapore” di medievalità apparente.

Anche il campanile, analogamente alla chiesa eretto con muratura a sacco, è una costruzione in stile romanico. Lo testimoniano i due fregi ad archetti pensili, con alcuni peducci decorati con testine e foglie, le sovrastanti cornici a losanghe, e le lesene, una centrale e due angolari. La genericità di questi motivi non permette di stabilire un periodo preciso di erezione (XII o XIII secolo). All’interno, quattro pennacchi alla sommità presuppongono un corpo superiore non realizzato: la copertura piana attuale non è dunque quella prevista in origine. La curiosa testa in pietra, piuttosto rudimentale ma espressiva, che si trova murata in alto rivolta ad est, è di difficile inquadramento, mentre la sistemazione della cella campanaria è successiva al Medioevo. 

Roncoferraro pare essere l’unico Comune della provincia di Mantova a poter vantare ben quattro testimonianze dell’arte romanica, numero superato solo dal capoluogo. Oltre alla chiesa di Barbassolo infatti si è conservata prima di tutto la massiccia torre di Casale, assegnabile alla seconda metà dell’XI secolo, con feritoie ad arco, cornici a denti di sega e fasce di mattoni disposti a spina di pesce, che in origine rivestiva una funzione difensiva di presidio militare, mentre ora ricopre il ruolo di torre campanaria della chiesa di San Biagio, edificio con elementi gotici (la cornice di coronamento delle fiancate), ma anche tracce di fasi forse dell’epoca della torre. Una finestra monofora strombata sopra l’ingresso della canonica di Governolo è un indizio dell’antica chiesa romanica, forse una ristrutturazione operata nel XII secolo della pieve già esistente nel 1037. Infine i poco conosciuti resti della chiesa di San Nicola, seminascosti in una corte rurale di Casale e in rovina, ci mostrano una costruzione assai simile a quella di Barbassolo, con mattoni a fasce alternate alte e basse, archetti pensili, tre monofore per lato e abside rivolta ad est. 

Questo territorio rivestiva evidentemente un’importanza strategica notevole, in quanto vi erano situate ben 6 delle 35 pievi della Diocesi mantovana menzionate in un documento del 1037: quelle di Barbasso, di Governolo, di Casale e di S. Martino nei suoi immediati dintorni, di Carzedole, oggi Villa Garibaldi, e di San Cassiano, una delle tante località menzionate nelle carte dell’epoca e ora non più esistenti. Nella prima parte del Medioevo, fino all’XI secolo, le località principali erano Governolo e Barbasso, sedi di corti e centri importanti anche in seguito: testimonianze del XV secolo sono infatti a Governolo il notevole campanile in stile “gotico lombardo” e la torre del castello, ristrutturazione della fortificazione dell’epoca di Matilde di Canossa, e a Barbasso nella canonica il resto di un colonnato con capitello a scudi. Dal XII secolo assistiamo all’ascesa di Roncoferraro, il cui nome rimanda al dissodamento, probabilmente con attrezzi di ferro, e a cui forse era legata la chiesa di Barbassolo; nell’epoca dei Gonzaga il centro visse una stagione importante, tanto da costituire la sede di un Vicariato popoloso e ricco, insieme con Governolo, che in quanto porta di accesso alla città di Mantova fu teatro di guerre tra i principali signori italiani.

3) Corte Casaletto con la Pieve Romanica

La corte privata Casaletto del Fissero, nella campagna intorno a Casale verso Governolo, nasconde i resti di una chiesa romanica: la cappella di San Nicola, ceduta nel 1073 da Beatrice e Matilde di Canossa alla Cattedrale di Mantova, e nominata poi anche in un decreto papale del 1151. La struttura, già dimenticata almeno dal ‘700, per essere poi riscoperta nel ‘900, è gravemente compromessa. Ne rimane la parete sinistra, riutilizzata come muro divisorio in una costruzione agricola, in cui risaltano tre strette monofore strombate e un fregio superiore ad archetti pensili, elementi questi entrambi riscontrabili anche nella vicina chiesa di Barbassolo e riferibili indicativamente agli inizi del XII secolo.

A Barbassolo e anche alle chiese dell’epoca di Matilde di Canossa dell’Oltrepò mantovano rimanda la muratura a fasce di mattoni alti e bassi alternate. Altri locali rustici, ormai difficilmente raggiungibili dopo crolli recenti, celano le finestre monofore del lato destro, alcune parti della facciata (tra cui il portale), e inoltre tratti di muratura della controfacciata. L’edificio aveva l’abside rivolta verso est, come quello di Barbassolo, con cui condivideva anche le dimensioni, ed era una delle numerose costruzioni erette in una zona evidentemente di strategica importanza.

4) Pieve di Casale

La torre campanaria della parrocchiale di Casale si sviluppa su cinque livelli, conclusi da una cella campanaria caratterizzata da aperture a bifora con arco a tutto sesto e doppia ghiera. La struttura massiccia e le finestre a feritoia presenti lungo la canna indicano che la torre di Casale non nacque come campanile, ma come presidio difensivo, per poi diventare presto un magazzino di viveri. La torre è costruita in mattoni con muratura a sacco (due fasce murarie con lo spazio interno riempito di frammenti di laterizio, ciottoli e calce), come gli edifici dell’Oltrepò mantovano dell’epoca di Matilde di Canossa e la chiesa di Barbassolo. 

Anche i pochi elementi decorativi (cornici a denti di sega a ripartire la superficie), l’alternanza tra laterizi sottili e spessi, la presenza di un tratto di mattoni disposti a spina di pesce al penultimo livello oltre all’inserzione sempre in quella fascia di una bocca d’anfora (come a Barbassolo), sono tratti dello stile romanico. In assenza di documenti, la rustica semplicità, analoga a quella delle torri cittadine mantovane, fa pensare che il manufatto risalga alla seconda metà dell’XI secolo, e costituisca pertanto la testimonianza più antica dello stile romanico rimasta nel territorio di Roncoferraro. L’analisi delle superfici murarie evidenzia come la parte terminale della costruzione, corrispondente alla cella campanaria, sia frutto di un’aggiunta successiva del XV secolo, connessa al riutilizzo del manufatto come campanile.

5) Interno del campanile di Bagnolo San Vito

La parrocchiale di Bagnolo San Vito è il risultato di diverse fasi costruttive dal XIII al XIX secolo. Attestata come pieve nel 1037, è nominata poi come chiesa di san Vito nel 1238. Dell’originaria struttura duecentesca, rimangono le fondamenta e un tratto di muratura con archetti pensili terminali, inglobata nel campanile. Quest’ultimo, con cella campanaria successiva, è costruito nel secolo XIV. La chiesa è ricostruita in gran parte agli inizi del Settecento. Presbiterio ed abside sono stati allungati di circa quindici metri tra il 1934 e il 1938.

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