La parrocchiale è dedicata alla Natività di Maria, come la pieve precedente del XIII secolo che si trovava all’interno del castello. Intorno al ‘400, quella chiesa romanica è demolita e si costruisce nel borgo l’attuale tempio, a sua volta in parte riedificato a metà ‘700 e poi riammodernato nell’ ‘800. La chiesa ha una pianta a tre navate di cui quella centrale conclusa da un’abside curvilinea mentre le due laterali terminano con una cappella a pianta rettangolare. La facciata neoclassica è segnata da tre portoni d’ingresso, sormontati da finestre semicircolari, corrispondenti alla ripartizione dell’aula. L’assetto interno dell’edificio è riconducibile agli interventi del 1860 quando oltre a irrobustire la struttura con due file di pilastri si realizzano anche le volte di copertura. Del complesso quattrocentesco si conservano parte dell’abside e il campanile. Quest’ultimo, sopraelevato nel ‘700, mostra le evidenti tracce della primitiva cella campanaria.
L’interno del tempio ha, sulle volte, una decorazione a finti cassettoni e sulle lesene un motivo a candelabra. La pala dell’altare maggiore ,con cornice lignea dorata e cimasa a cartiglio, è del 1688 e rappresentata la Madonna in una corona d’angeli, assisa in cielo con il Bambino e san Giovannino. In basso i santi Sebastiano, Francesco, Antonio da Padova e Rocco le rivolgono uno sguardo di adorazione. Sullo sfondo sono dipinti gli edifici più importanti del castiglionese: il castello, la corte Guerrieri Gonzaga (oggi detta Cort’Alta) e la chiesa. Nella cappella laterale della navata destra, il Crocifisso è del ‘400 mentre la tela che gli fa da sfondo, con la Madonna, san Giovanni e due angeli è del XVII secolo. L’altare, eretto il 29 aprile 1795 dall’allora parroco Vincenzo Gasparini, ha un tabernacolo a tempietto.
Motta deriva dal latino volgare mutta (altura o terreno rialzato). Frammenti di vasi e fusaiole, vale a dire strumenti in terracotta per la tessitura, ritrovati nei dintorni, stanno a dimostrare che la zona era abitata fin dall’età del bronzo medio (1650-1400 a.C.). Chi arriva alla Corte Motta (situata nel Comune di San Giorgio Bigarello, via Cadè, 11) tra la dine di aprile e gli inizi di maggio, avrà la fortuna di vederla circondata da una distesa d’acqua. Il “lago” rivela che qui si coltiva il riso, come avveniva nei secoli scorsi, impiegando le acque della Tartagliona: lo documentano una mappa del Settecento, quando la corte era posseduta dalla famiglia Maffei, aspetto che trova conferma anche nel Catasto teresiano (1776).
Un’interessante casa padronale, di origine gonzaghesca (inizi del XVI secolo), domina la corte Motta: la sua tipologia è simile a quella della Gregoria. Probabilmente tutte le stanze della dimora erano affrescate. I dipinti vennero alla luce durante alcuni lavori di ristrutturazione, negli anni Sessanta del Novecento. Vi erano figure femminili, scene di battaglia, putti, perfino un cavallo. Alcuni di questi dipinti furono strappati e collocati presso abitazioni private, altri andarono distrutti. Ancora oggi, qua e là, sulle pareti, si scorgono tracce di affreschi: fronde di alberi, per esempio. I resti più notevoli riguardano uno stemma della famiglia Gonzaga, con due delle quattro aquile, rappresentate in basso. Anche una cappella rientrava fra gli ambienti della dimora: non si sa però a chi fosse intitolata, se a Gesù Cristo, alla Vergine Maria o a un santo. Il padrone di casa, nel periodo della villeggiatura oppure quando seguiva i lavori agricoli, trovava il tempo per fermarsi a pregare, da solo o insieme ai propri familiari.
Il palazzo padronale della corte è realizzato dall’architetto Luca Fancelli (1430-1494) nella seconda metà del ‘400: l’edificio è rimaneggiato nell’800. La facciata interna, verso l’aia, conserva gli elementi propri del linguaggio fancelliano: un volume compatto concluso da una merlatura ghibellina cieca e da una cornice a dentelli di mattoni. Questo edificio rappresenta una delle prime forme di dimora padronale rurale; non tanto la villa, ma il palazzo di città, è il riferimento tipologico della struttura. La costruzione non propriamente palazzo, non ancora villa e non più castello, rappresenta la mediazione tra cultura fiorentina, padana e veneta da un lato, e castello e residenza dall’altro, e costituisce l’origine tipologica della dimora rurale mantovana. All’interno un androne centrale passante, posto longitudinalmente rispetto alla costruzione, riprende l’androne aperto, posto all’ingresso dei palazzi di città, diventando da allora, un elemento costante nella villa di campagna del territorio.
La parrocchiale di Bagnolo San Vito è il risultato di diverse fasi costruttive dal XIII al XIX secolo. Attestata come pieve nel 1037, è nominata poi come chiesa di san Vito nel 1238. Dell’originaria struttura duecentesca, rimangono le fondamenta e un tratto di muratura con archetti pensili terminali, inglobata nel campanile. Quest’ultimo, con cella campanaria successiva, è costruito nel secolo XIV. La chiesa è ricostruita in gran parte agli inizi del Settecento. Presbiterio ed abside sono stati allungati di circa quindici metri tra il 1934 e il 1938.